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La redistribuzione della ricchezza nell’avvocatura italiana

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La redistribuzione della ricchezza nell’avvocatura italiana

La situazione reddituale alla fine del 2016 è la seguente:

Il totale del reddito è pari a € 8.414.280.162 riferiti a 239.848 avvocati.

Da zero a 20.071 gli iscritti sono 143.056, tra i quali 20.642 fantasmi che sono coloro che non inviano il modello reddituale, ai quali corrisponde un reddito di € 957.860.586.

Questo significa che i restanti 96.792 hanno complessivamente un reddito pari a € 7.456.419.576.

In termini reddituali c’è da concludere che gli avvocati in Italia sono 96.792. Ma in base alla legge n. 247/2012 è vietata ogni discriminazione sul reddito.

Allora, per farla breve, delle due l’una: o si prosegue la politica intrapresa di “massiva epurazione su base reddituale” o s’imposta una nuova politica forense diretta all’equa redistribuzione del PIL dell’Avvocatura fra tutti gli iscritti.

L’equazione avvocato ricco = avvocato intelligente e professionale non regge perché, oggi come oggi, la distribuzione degli affari avviene, anche e soprattutto, con criteri clientelari che vanno dagli agganci politici, sindacali, industriali, commerciali, associativi e chi più ne ha ne metta, spesso e volentieri tralaticiamente di padre in figlio a dispetto del merito.

Romano Benini, nel suo saggio Italia Cortigiana, ed Donzelli 2012, spiega che esiste da sempre in Italia, dai tempi della Roma dei Cesari e dei Papi, un modello politico, sociale ed economico basato su clientele e corruzione, ingiusto e parassitario, che ancora oggi ostacola l’Italia del lavoro e delle competenze, del «saper fare» e della laboriosità dei nostri territori: è il sistema che si sviluppa nel rapporto tra patrono e cliente, che determina forme di dipendenza e che ostacola la capacità d’agire. Questo è il modello cortigiano del potere. È un vizio antico, in cui gli italiani si rifugiano soprattutto nei periodi di decadenza, e che anche ai giorni nostri costituisce il principale scoglio per lo sviluppo. Italia cortigiana racconta la storia secolare del carattere cortigiano del potere italiano, valutando l’efficacia dei diversi sistemi di organizzazione della politica e dell’economia rispetto al criterio del merito, dell’onestà e della professionalità, e offre alcune indicazioni su come superare i limiti del sistema cortigiano e i suoi condizionamenti, per affermare pienamente, nella società e nell’economia, l’autonomia e il valore delle persone. Un confronto che prende spunto da 3 precise fasi della storia italiana, in cui in diversi modi lo stile cortigiano del potere è prevalso attraverso clientele, caste e privilegi che hanno determinato un degrado culturale, sociale ed economico. Si tratta della Roma imperiale, della Roma rinascimentale e della Roma dei giorni nostri. Una vicenda che parte dalla capitale, città nata come sede del potere, per estendersi all’Italia intera. Dall’organizzazione del consenso alle tasse, dalla rappresentanza politica al ruolo della donna, dalla funzione delle clientele al sistema delle raccomandazioni: un affresco storico interessante da cui emergono i motivi e le origini di molti dei comportamenti dell’attuale ceto politico e della crisi che investe l’Italia. Perché i popoli che dimenticano la propria storia sono condannati a ripeterla.

Selezione reddituale… Mi rendo conto che per i 96.792 avvocati “in bonis” è un argomento che suscita insofferenza grave però, altrettanta insofferenza grave, provoca la massiccia selezione reddituale che prescinde da ogni valutazione del merito.

Diversamente si scatenerà una guerra tra poveri per contendersi le briciole dato che l’Avvocatura “in bonis” non appare certo disposta alla ridistribuzione del PIL.

Del resto il microcosmo dell’Avvocatura italiana è speculare al macrocosmo italiano, europeo e mondiale dove l’1% della popolazione detiene la stragrande maggioranza della ricchezza.

Così non si può più andare avanti e urge una nuova politica forense informata ai principi distributivi della competenza e della professionalità per dare a tutti gli iscritti le medesime opportunità, quantomeno per dimostrare sul campo il proprio merito.