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Tra avvocati italiani e stabiliti non vi è disparità di trattamento ai fini dell’accesso all’albo cassazionisti

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Tra avvocati italiani e stabiliti non vi è disparità di trattamento ai fini dell’accesso all’albo cassazionisti

Così il Consiglio di Stato con la sentenza n. 2600/21, depositata il 29 marzo.

La controversia nasce dall’impugnazione del Regolamento del CNF n. 1 del 20 novembre 2015 avente ad oggetto la disciplina dei corsi per l’iscrizione all’Albo cassazionisti. Secondo i ricorrenti tale disciplina sarebbe in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza, di parità di trattamento e di non discriminazione tra avvocati formatisi in Italia e avvocati stabiliti in ordine all’accesso all’Albo dei patrocinanti davanti alle giurisdizioni superiori.

La questione veniva ritenuta fondata dal TAR Lazio, seguiva dunque l’intervento della Consulta che con l’ordinanza n. 156/2018 ha rilevato come nelle more del giudizio l’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 96/2001 sia stato sostituito dall’art. 1 l. n. 167/2017 (legge europea 2017). La norma risulta dunque così formulata «l’iscrizione nella sezione speciale dell’albo indicato al comma 1 può essere richiesta al Consiglio nazionale forense dall’avvocato stabilito che dimostri di aver esercitato la professione di avvocato per almeno otto anni in uno o più degli Stati membri, tenuto conto anche dell’attività professionale eventualmente svolta in Italia, e che successivamente abbia lodevolmente e proficuamente frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal Consiglio nazionale forense, ai sensi dell’articolo 22, comma 2, della legge 31 dicembre 2012, n. 247».

Il TAR Lazio rigettava di conseguenza l’impugnazione. La vicenda è così giunta all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada. Secondo i ricorrenti, la discriminazione censurata sarebbe tuttora permanente a causa dell’art. 8 l. n. 31/1982 che regola le prestazioni occasionali rese in Italia dagli avvocati stabiliti.

Il Consiglio di Stato conferma la decisione del TAR Lazio poiché «la richiamata disposizione della l. n. 31 del 1982 non rappresenta infatti un idoneo tertium comparationis ai fini del test di ragionevolezza delle disposizioni sospette di incostituzionalità, poiché queste ultime regolano un requisito (l’iscrizione all’Albo speciale) che è specificamente richiesto all’avvocato c.d. stabilito, ma che non è necessario ai fini della libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione garantita dal Trattato».

Come chiarito dal TAR nella pronuncia impugnata infatti «tale disposizione, invero, è inserita nella legge che regola la “Libera prestazione di servizi da parte degli avvocati cittadini degli Stati membri delle Comunità europee”, la quale, per quanto qui interessa, prevede all’art. 1 che sono considerati avvocati i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, abilitati nello Stato membro di provenienza ad esercitare le proprie attività professionali con una delle denominazioni ivi elencate, e precisa, all’art. 2, che detti professionisti sono ammessi all’esercizio delle attività professionali dell’avvocato, in sede giudiziale e stragiudiziale, con carattere di temporaneità e secondo le modalità stabilite dalla norma medesima. Gli stessi non possono fregiarsi del titolo di Avvocato (ma di quello conseguito nel Paese di origine), e proprio per questo “sono considerati” (e dunque non sono) Avvocati (art. 3)».

La pronuncia precisa dunque che i concetti di temporaneità e occasionalità dell’attività professionali sono stati definitivi dai criteri enunciati dalla Corte di Giustizia EU nella sentenza 30 novembre 1995, in causa C-55/94. Inoltre «allorché l’accesso a un’attività specifica, o il suo esercizio, è subordinato, nello Stato membro ospitante, a determinate condizioni, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività deve, di regola, soddisfarle».

Viene poi ricordato che le statuizioni della Corte di Giustizia «assumono portata precettiva nel nostro ordinamento, ricevendo puntuale declinazione negli obblighi di comunicazione e nei controlli disciplinati dalla stessa legge n. 31 del 1982, la cui violazione può assumere anche rilevanza penale (Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 1999, n. 715, in ordine alla configurabilità del delitto di cui all’art. 348 c.p.)».

In conclusione «la disomogeneità delle situazioni poste a raffronto – per le quali vige una disciplina differente, a seconda della occasionalità o stabilità dell’attività – consente, in definitiva, di ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale riproposta in sede di appello».