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Per una Giustizia Civile. Ovvero, Aristotele oltre Hobbes e Rousseau

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Per una Giustizia Civile. Ovvero, Aristotele oltre Hobbes e Rousseau

1. Il bell’editoriale di Fabrizio Di Marzio ci richiama alle radici della comunità, ora come allora: cum- munus, la partecipazione ad unità di regole, di comportamenti seguiti per identità di attitudini, di convinzioni, di sentimenti. È la capacità di ragionare, più radicalmente, di immaginarci uti cives e non uti singuli, come componenti di una collettività, piuttosto che come attori isolati, unici, compiaciuti della propria individuale peculiarità, di un’utilitaristica astuzia. È la regola delle regole, l’architrave della convivenza, quella che dà senso alla (perché richiede una) Giustizia Civile: non la giustizia assoluta, quella del dio verso l’individuo, ma della comunità verso un suo componente, il cui parametro è il rapporto fra l’uno e gli altri, fra l’io e l’insieme. È una regola così grande che non si può imporre con la forza, non si può ottenere con la minaccia della sanzione: è troppo ampia per renderla coercitiva. Sta all’intelligenza di ciascuno percepirla e seguirla, capire dove si manifesta di volta in volta, ora come allora. Anche perché il più delle volte non sono i giuristi a indicarla o ad evocarla: spesso anzi sono gli artisti, i musici, i poeti, i pittori a richiamare i cives al loro fondamento della civiltà. E Fabrizio Di Marzio lo fa ricordando il “patto” sociale che ci lega, immaginato da Hobbes, Locke e Rousseau. Un “patto” presupposto, più che storicamente posto, una forma di assicurazione sciale il cui motore è la paura, il rischio di soccombere alla violenza, all’in-civiltà. La paura: il grande motore di Hobbes che la riconosce come sorella gemella, di cui sua madre si è sgravata con lui, in quel fatidico anno 1588 quando l’Invincibile Armata ha messo a rischio l’inviolabilità dell’Isola e stretto tutti gli inglesi attorno alla loro regina, ponendo dietro di sé i propri egoismi a fronte del pericolo che insidiava tutti. Ora come allora. Com’era stato poi per Locke, medico di Carlo II, che ritiene il “patto” storicamente avvenuto: non uno solo, ma tanti, ogni qual volta serva (ri)aggregare la convivenza civile, come ai tempi della Gloriosa Rivoluzione, quella del Bill of Rights, dell’elenco di diritti dell’Uomo, il cui rispetto da parte di uno Stato lo rende uno Stato civile, un momento in cui occorre aggregarsi e rinsaldare il patto. Ora come allora. E Rousseau che ci invita a partecipare alla vita civile, ad andare a votare, per riconoscere nella legge la nostra volontà, per obbedire alla legge come obbediamo a noi stessi, a riconoscere così nell’interesse pubblico non l’utilità del sovrano di turno, ma quello della comunità civile, ad imparare che in queste situazioni non c’è un “mio” contro il “tuo”, ma un “mio” contro il “nostro”, a ragionare – ancora una volta – uti cives, non uti singuli. Dietro a tutti, oltre a tutti, c’è Aristotele, troppo spesso citato per la definizione di uomo come animale politico per natura, senza completare la frase con quel che ne segue nell’originale greco: lògon èkon, avendo la ragione, cioè poiché ha la ragione (quindi, la parola). Poiché ha la ragione, l’uomo è essere socievole, civile per natura. Il grande Stagirita è disarmante nella definizione che ci dà dell’uomo. È un bipede implume, senza zanne, artigli o pelliccia, lento nella fuga, inadatto al nuoto, incapace di volare, inerme nella sua fragilità. Per natura quindi trova la forza nel gruppo, al pari di formiche od api? Per le sue (deboli) caratteristiche fisiche (fysis = natura) si associa agli altri? Forse, ma non solo. È socievole, è civile, poiché ha la ragione, perché ha la parola: è capace di prometter un futuro comportamento e mantenerlo, sa essere affidabile, è capace di generare fiducia, il motore delle regole, delle relazioni, del progresso. L’uomo, questo bipede implume, la cui società, la cui cum munus – comunità è salda, non perché fondata sulla paura di Hobbes, non sull’utilità di momento in momento (opportunismo?) di Locke, non sull’artificio psicologico di immedesimazione della democrazia diretta (io governato sono anche io governante) di Rousseau, ma più radicalmente sulla ragione, sulla parola, sulla autentica caratteristica umana: sulla capacità di dare fiducia, di essere affidabile, quindi responsabile, di capire quanto una regola va rispettata, a prescindere dal gendarme che ci tiene d’occhio.

Tanto che il tradimento di queste qualità, istintivamente, intimamente, con una percezione quasi atavica, ci fa sentire inadeguati, ci fa provare vergogna … anche ai più disincantati e coriacei fatalisti: vergogna, seppure ormai attutita, smorzata, spenta da più immediate e suadenti utilità immediate o future.

2. Il cinese che si vergogna (ovvero, etica cavalleresca vs logica di mercato). – Passata l’emergenza in quella sua provincia popolosa quanto l’Italia, il Cinese è venuto in soccorso dell’Occidente, portando più mascherine di quante ne avesse ricevute, portando la competenza medica maturata sul campo del sacrificio e affinata sulla vita di molti, a cominciare dal giovane medico che per primo intuì il male, indicandolo presente nel mondo. E il cinese si vergogna. Si vergogna di aver causato (come se lo avesse veramente causato), di aver permesso, di non aver fermato un male tanto grave. L’inadeguatezza rispetto agli “altri” uomini, riflesso immediato dell’inadeguatezza rispetto ai “propri” concittadini. Il malessere per aver tradito la fiducia, per non essere stato affidabile, per non aver fatto ciò che ci si aspettava, quel futuro comportamento responsabile su cui “gli altri”, gli europei, i non cinesi facevano affidamento. È una cosa che notiamo spesso, questo tratto degli orientali, che ci stupisce, ma su cui riflettiamo poco. E a ben guardare è un tratto veramente comune a tutto l’Oriente: Cina, Giappone, Siam, ma anche Tailandia, insieme fanno un buon quarto di mondo retto sull’idea dell’onore, della certezza che alla promessa seguirà il comportamento, che all’azione seguirà la responsabilità. Un atteggiamento da etica cavalleresca, che ci fa sorridere perché ci sembra antico, anche se –per loro- vincolante ed attuale, tanto da non poter sfuggire … se non piano piano e solo in questi ultimi tempi: ci si vergogna, ma intanto si magnifica il proprio prodotto, si sponsorizza la propria immagine, si procede di conserva. Perché questo atteggiamento antico, che riconosciamo anche se ci pare strano? Perché quest’etica cavalleresca negli affari? In fono sono solo affari, ci viene da dire. Si, l’Oriente non ha avuto il Rinascimento – non tanto quello artistico – ma quello scientifico e, soprattutto, quello economico che dei primi due è stato motore. All’onore del cavaliere succede l’arguzia (e l’astuzia) del mercante, del banchiere, certo coraggiosi, perché viaggiatori ed esploratori, ma con il gusto della speculazione, nel doppio significato (uno derivato dall’altro) di guardare e di guadagnare. Ed allora non posso vergognarmi, perché se guadagno vuol dire che sono bravo e non devo rattristarmi per gli altri, Ciò che arricchisce è bene, anche se a scapito degli altri, anzi, soprattutto a scapito degli altri: la competitività individualista del mercato, che mette in secondo piano (ma non può dimenticare) regole e responsabilità. Intanto guadagno, poi si vedrà. È il momento dell’individualismo di chi pensa di essere il più furbo. Questo è (anche) stato il Rinascimento, un modo di guardare le cose non per ciò che esse erano, ma per ciò che con esse si poteva fare. Non è più il sapere per comportarsi ed essere felici dell’eudaimonìa di Platone, ma è lo scire unde posse, il sapere per il potere di Bacone, non a caso maestro diretto di Hobbes … che poi il potere possa dare la felicità, è un altro discorso. Che qualcuno confonda la felicità con l’appagamento (di per sé, sempre momentaneo) è un altro discoro ancora. Ma a seguire Nietzsche troppo da vicino si finisce a baciare cavalli per le vie di Torino. Certo è che la logica del mercato, dove il prezzo è giusto perché voluto dai contraenti, perché frutto di incontro di volontà individuali, affievolisce quell’uti Cives di cui si diceva, di quel “mio” contro il “nostro” che è equilibrio del singolo nella comunità, come in musica è l’armonia, dove ciascuno – ogni nota – ha un posto e nessuno prevarica sugli altri.

3. Il corsaro e la zavorra (ovvero abbandonare l’inessenziale, il non produttivo). – Per presentarsi ai negoziati internazionali in posizione di forza, occorre avere un bilancio a posto, ostentando così la propria forza, la capacità di tenere “i conti in ordine”. E per tenere in conti in ordine vi sono tre strade: essere in pochi con alta produttività, come cinque milioni di persone seduti sui giacimenti del Mare del Nord, oppure aumentare le tasse per pagare i costi sociali, oppure ridurre i costi, chiudendo i servizi: i trasporti locali a prezzo di redditività, la scuola al minimo, la sanità “a casa”. Non si va più dal medico non tanto perché si sta meglio, ma perché non ce lo si può più permettere. L’importante è far credere che si goda generalmente di buona salute e che individualmente ci si arrangia meglio che in troppi … ché i troppi rallentano la corsa. E via allora di corsa per mare, tornando a quello stato di natura vagheggiato dai filosi inglesi, il mitico stato originario ove è lecito ciò che si può e finché lo si può. Si corre per mare, prendendo quello che si riesce e tenendolo finché si riesce. Si corre e ci si procura anche qualche protezione, ottenendo una patente di corsa, così da essere dei corsari istituzionalizzati. In mare vale la logica della barca: tutto ciò che pesa, che rallenta, che non serve (più) è abbandonato, buttato fuoribordo, in un perenne invocato stato di necessità che giustifica e legittima ciò che non è ammesso nella civitas: furto, violenza, omicidio. La barca è un communitas? È una società civile? Sembra anche questo un luogo ove ciascuno ha un proprio posto e si impegna per uno scopo comune. Ma a ben vedere, in mare, la salvezza della barca prevale sempre e comunque su quella dei singoli, richiesti di sacrificarsi per la barca. Anche lo scopo, più che comune, sembra individuale: non si ragiona uti cives, ma uti singuli, poiché si tratta di una somma di interessi individuali, provvisoriamente uniti nell’egoistico scopo di fare bottino. E chi non ci sta finisce in mare, chi è ferito si prepari a morire, chi resta indietro sarà abbandonato. È la dura legge del mare. È la regola (l’unica) dello stato di natura, è il diritto inteso come l’utile del più forte. Stati così organizzati non hanno debiti, ma non danno servizi, lasciano all’iniziativa del singolo – entro pochissime regole autoevidenti – le sorti di ciascuno, ove si ragione uti singuli, non uti cives. Ed infatti, in barca non c’è giustizia civile, ma solo contabilità. Preparatevi a veder morire i vostri cari.

4. Economia di sussistenza ed economia di sviluppo (ovvero, la schiavitù degli uni per l’estetica di altri). – È facile avere i conti a posto quando si ha un impero di docili schiavi, acquistati comprando a poco prezzo le loro cose migliori, per rivenderle ad altri. Così il coraggio dei corsari del mare viene ripagato: il grande rischio del naufragio, porta al grande profitto del ricarico sul prezzo, del bottino. Avere un impero, uno stuolo di servitori devoti, aiuta a pagare i conti, semplicemente perché non si hanno costi (oppure sono in misura tanto inferiore, quanto vengono sottopagati i servitori) e ci si può dedicare ad altro.

È una costante, in verità, quella del progresso delle civitates. Storicamente ogni cultura si è sviluppata quando ha potuto affrancarsi dall’economia di sussistenza, acquisire tempo libero, dedicarsi all’osservazione e liberando lo spirito estetico, inventivo, nei più diversi campi. Persiani, Egizi, Greci, Romani, Anglosassoni, tutti dopo aver capito i rudimenti della natura si sono affrancati dai suoi ritmi mettendo qualcun altro a seguirli, volgendo gli occhi al cielo e pensando attorno alle stelle de-sideris, cominciando a vagheggiare attorno agli astri, de-siderando. E proprio perché hanno potuto alzare la testa dalla ripetitiva quotidianità le civiltà hanno segnato le epoche. Ma a quale prezzo? Al prezzo di escludere dalla civitas, dalla communitas intere categorie di persone, di tagliare fuori gruppi, di amputare membra sociali. Gli strumenti sono stati molteplici, gli espedienti curiosi, gli effetti diversi. Dall’originario diritto di bottino, frutto della forza, della conquista (il diritto come l’utile del più forte), all’inferiorità del genere o della razza, fino a negare natura umana sul colore della pelle o disquisendo della glandola pineale. Se è vero che la quotidianità abbruttisce, l’elevazione non può sopportare asservimento di persone, né – tantomeno – dell’intero pianeta, ritenuto malinteso bottino di chi si ritiene capace di manipolarlo. Non è civile, non si ragiona uti cives agendo come se non ci fosse domani, scaricando sugli altri il nostro tempo libero, perché schiavitù è togliere tempo agli altri per averne più noi: non potendo bere la vita, si sottrae il tempo.

Ora, stiamo vivendo il singolare momento in cui si può essere affrancati dal quotidiano, dell’economia di sussistenza, senza dover schiavizzare, asservire altri, escludendoli dalla communitas. È il singolare privilegio tecnologico per cui il molto ripetitivo può essere fatto con poco, liberando tempo ed energie per cose nuove. Possono essere gare di cucina o ricerche per quello di cui abbiamo bisogno, sta a noi: dalle biotecnologie, alle scienze naturali, senza dimenticare arti e mestieri. Sta a noi decidere, ma sarebbe incivile, non da cives,buttare il tempo che ci è dato in più. Non è la ricerca del tempo perduto, neppure il tempo ritrovato: non è il tempo libero, ma il tempo liberato. Riconosciamolo con un atto di intelligenza ed usiamolo per il salto di qualità della nostra civiltà, sfruttiamo l’otium che ci è dato come investimento per il futuro: ragioniamo ut cives. Ora come allora.

5. Principio speculativo e buona fede nelle obbligazioni (ovvero, per una conclusione). – Da un lato l’art. 2247 c.c. contiene il principio speculativo cui sono informate le società: si conferisce e si rischia insieme per dividersi gli utili, ma pur sempre entro una cornice di regole partecipate, sentite come proprie. Dall’altro l’art. 1175 dello stesso codice fa sintesi delle diposizioni generali in materia di obbligazioni, richiamando la correttezza, la buona fede, anche nelle attività più individuali, che prospettano sempre e comunque una comunità più ampia. La communitas ha questo di particolare: non è un tutto che annulla le parti, secondo modelli teocratici o totalitari, per cui il dio, lo stato, il partito chiedono sacrifici e debbono prevalere su tutti; non è nemmeno un’impresa rischiosa che si accetta volontariamente allo scopo di lucrarne i vantaggi sperati, pronti a sopportarne le perdite o il perimento. Non è un’imposizione, non è nemmeno un atto di libera volontà individuale e momentanea. È la capacità, l’attitudine al riconoscimento delle condizioni di vita proprie dell’uomo, bipede implume, a seguire l’interesse comune, inteso come “quello proprio di ciascuno, ma non esclusivo di alcuno”, di saper riconoscere il bene comune, che altro non è se non il riconoscimento in comune del Bene.

Ecco, tutto questo è la condizione per una Giustizia Civile, non una giurisdizione civile, nemmeno una giustizia civile, ma proprio una Giustizia Civile.

(Fonte: giustiziacivile.com)

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